La tutela della salute nel nostro ordinamento
Vediamo nel dettaglio cosa prevede l'ordinamento italiano per le vittime di errate trasfusioni sanguigne che possono mettere in serio pericolo la propria salute.
1. Introduzione
La nostra Costituzione riconosce e garantisce il diritto alla salute inquadrandolo come fondamentale e inviolabile ed impone, altresì, allo stato di tutelarlo e di garantirlo a tutti mediante il sistema del Welfare State.
Infatti, l’art. 32 della Costituzione recita: "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge".
Alcune volte può accadere che si possano creare delle situazioni di pericolo che vanno ad intaccare questo diritto fondamentale e irrinunciabile. Basti pensare alle trasfusioni di sangue (dicasi trasfusione la trasmissione di sangue da un organismo detto donatore ad un altro che lo riceve; il donatore può essere della stessa specie del ricevente o di specie diversa) che, a tutt’oggi, si
rivelano sempre più richieste e che, purtroppo, alcune volte, a causa della malpractice sanitaria, possono rivelarsi deleterie per la salute del paziente.
Ebbene sì, nel 2020, si può ancora morire in ospedale per una trasfusione contenente sangue infetto o si possono contrarre infezioni (ad esempio, l’epatite C) se la stessa viene eseguita senza i necessari accorgimenti.
2. Morte del paziente a seguito di trasfusione con sangue infetto: responsabilità e conseguenze risarcitorie. Il caso Poggiolini
La materia delle emotrasfusioni sembra lontana dalle nostre vite ma, in realtà, è più vicina di quanto crediamo, soprattutto se abbiamo intorno parenti o conoscenti che purtroppo hanno dovuto far ricorso a tali terapie invasive.
Un caso in Italia che ha molto colpito l’opinione pubblica è stato quello relativo al sig. Duilio Poggiolini.
Costui, importante dirigente del Ministero della Sanità tra gli anni ’70 e ’90, già condannato per corruzione durante le inchieste note come Tangentopoli, è stato assolto lo scorso 26 marzo 2019 dal Tribunale di Napoli per il risaputo scandalo degli emoderivati, ovvero del sangue infetto.
Questo fu un caso che attirò l’attenzione non solo a livello nazionale ma anche internazionale proprio per il fatto che, dopo ben 23 anni di processi, si è concluso un lungo iter che ha visto l’assoluzione, non solo del Poggiolini, ma anche di altri dirigenti e di tecnici di gruppi farmaceutici molto in vista, dall’accusa di omicidio colposo nei confronti di numerosi pazienti deceduti a seguito di trasfusioni di sangue infetto.
In più, i pazienti colpiti erano anche affetti da emofilia, una malattia che causa un difetto nella coagulazione del sangue che non sarebbe stata doverosamente tenuta sotto controllo dal Ministero della Salute né, tantomeno, dalle case farmaceutiche.
Una brutta pagina del nostro sistema sanitario che si è conclusa con un’assoluzione piena (il fatto non sussiste) che ha lasciato un grande amaro in bocca. Infatti, sembrerebbe che i giudici abbiano accolto la tesi dell’accusa in base alla quale, da un lato, non era stato possibile provare in maniera inequivoca il nesso causale tra le trasfusioni di sangue e le malattie che hanno colpito le persone decedute; dall’altro, emergeva chiaramente una grave pecca del sistema sanitario nazionale e della politica stessa che non avrebbero vigilato a sufficienza su questi infausti episodi.
A tali assoluzioni, seguirono altrettante migliaia di richieste di risarcimento danni da parte dei parenti delle vittime nei confronti del Ministero della Salute che si è visto costretto ad un esborso di milioni di euro.
2.1 Sull'individuazione dei soggetti responsabili. Il medico chirurgo
A seguito di una trasfusione attuata senza il rispetto delle regole sanitarie, il paziente può contrarre un’infezione che si porterà a vita o, nella peggiore delle ipotesi, può decedere per la gravità delle lesioni subite.
Dunque, in entrambe le ipotesi, è necessario individuare il responsabile dei danni arrecati alla salute.
Nel caso di trasfusione con sangue infetto (è doveroso spiegare come l’espressione danno da sangue infetto designa qualsivoglia pregiudizio derivante da contagio di patologie mediante trasfusione di sangue o somministrazione di emoderivati) e conseguente morte del paziente, è opportuno escludere la responsabilità in capo al medico chirurgo che ha effettuato l’operazione sul soggetto, in quanto non è suo compito il controllo delle sacche ematiche che provengono dal centro trasfusionale.
Infatti, compete al reparto di Ematologia consegnare in sala operatoria il materiale ematico etichettato in maniera corretta. Il medico chirurgo, ovviamente, dovrà accertarsi che sulle provette di sangue ci sia la dicitura esito negativo dei controlli sierologici obbligatori.
Il sanitario può, quindi, limitarsi a riportare sulla cartella i dati che identificano la singola sacca, ovvero, il numero della provetta e la provenienza dal centro trasfusioni.
IL PRIMARIO EMATOLOGO.
Al contrario, la responsabilità va, invece, individuata innanzitutto in capo al primario ematologo che ha fornito il sangue, per l’incompleta etichettatura del sangue donato; è lui responsabile se la compilazione della scheda non risulta completa o non sono stati eseguiti i controlli di legge sul materiale ematico, mentre la trasmissione della sacca in chirurgia attesta che la sacca ha superato i testi sierologici.
Una importante pronuncia della Corte di Cassazione, sentenza n. 25764/19 del 14.10.2019, ha statuito che non può essere responsabile il chirurgo operatore che ha richiesto la trasfusione se nei suoi confronti viene accertato l’avvenuto rispetto dei doveri specifici, compresa la verifica delle indicazioni minime sulla provenienza apparentemente lecita del plasma; doveri che non possono essere equiparati a quelli del primario ematologo in ordine alla selezione del sangue destinato alle trasfusioni.
Pertanto, la Suprema Corte ha riconosciuto pienamente sussistente il legittimo affidamento del medico-chirurgo nei confronti del centro trasfusionale interno allo stesso ospedale. L’azione di risarcimento dei danni da emotrasfusioni o emoderivati trae origine, nella maggioranza dei casi, da un fatto dannoso che colpisce il soggetto che, per una sua patologia congenita, è costretto con periodicità, in tutto l’arco della sua vita, a sottoporsi ad emotrasfusioni e ad assumere emoderivati, presso una o più strutture sanitarie. In un minor numero di casi il contagio avviene, invece, in conseguenza di un singolo fatto traumatico, per esempio, l’operazione chirurgica, il parto o l’infortunio, che rendono necessaria una trasfusione.
IL MINISTERO DELLA SALUTE.
Pertanto, i soggetti danneggiati, preferiscono indirizzare l’azione risarcitoria nei confronti del Ministero della Salute per omessa vigilanza e controllo sulla raccolta e distribuzione del sangue; in questo caso, si ravvisa una responsabilità di tipo extracontrattuale (ex art. 2043 c.c.) in capo al Ministero della Salute il quale, in materia di raccolta e distribuzione del sangue, omette i dovuti controlli sull’uso terapeutico del sangue e sulla sua idoneità ad essere oggetto di trasfusione soprattutto nel caso di prevedibilità del virus specifico dell’epatite (cfr. Corte di Cassazione Civile, sez. III, n. 2790 del 31 gennaio 2019).
Accanto alla responsabilità cd. extracontrattuale del Ministero della salute per omissione di controlli specifici, si profila eventualmente anche la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria ex artt. 1218 e 1228 c.c., in relazione al cd. contatto sociale che viene ad instaurarsi tra paziente, strutture sanitarie e medici, anche in caso di emotrasfusioni (cfr. Corte di Cassazione Civile, sez. III, n. 3685 del 15 febbraio 2018).
2.2 Sul danno da emotrasfusione: presupposti e limiti dell'azione di risarcimento. Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale
Come su esposto, è evidente che, dall’impostazione della causa come volta a far valere la responsabilità contrattuale o extracontrattuale del convenuto, discendono rilevanti differenze in ordine a molteplici profili, quali il termine, decennale o quinquennale, di prescrizione dell’azione, la decorrenza del suddetto termine di prescrizione, il contenuto dell’onere probatorio in
relazione al nesso causale e alla responsabilità colposa o dolosa del convenuto, l’ampiezza dell’area del danno risarcibile.
Infatti, la prova della responsabilità per tali tipologie di danni non è certo agevole, stante la difficoltà di individuare i singoli soggetti coinvolti nella realizzazione del pregiudizio e la difficoltà di identificare con certezza il momento preciso in cui si è verificato il contagio, oltre che la sua causa.
Il riferimento è soprattutto a quelle patologie che presentano un periodo di incubazione molto lungo; in questi casi si suole parlare di danni lungo-latenti potendo i medesimi manifestarsi a distanza anche di anni molti dal contagio. Ciò comporta, come intuibile, rilevanti conseguenze in ordine alla prescrizione del diritto al risarcimento del danno, questione sulla quale la giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi più spesso.
2.3 Sull'indennizzo e sul risarcimento: il problema del computo della prescrizione
Giurisprudenza a confronto.
Quando si parla di danno da emotrasfusione è necessario distinguere tra l’indennizzo dovuto in base alla l. 210/1992 (del quale abbiamo già discusso in seguito ad una recente e importante pronuncia della Cassazione) e il risarcimento del danno ex art. 2043 cc.
L’indennizzo di cui alla l. n. 210/1992, dovuto dallo Stato, è riconosciuto a coloro i quali presentino danni irreversibili da epatiti post- trasfusionali o da epatite contratta a seguito di somministrazioni di derivati del sangue e consiste in un assegno composto da una somma determinata nella misura stabilita dalla tabella B allegata alla legge 177/76, cumulabile con ogni altro emolumento a qualsiasi titolo percepito e da una somma corrispondente all’importo dell’indennità integrativa speciale di cui alla l. 324/59.
Esso si compone, quindi, di due quote: una prima quota che rappresenta il vero e proprio indennizzo, ed una seconda quota che integra la prima, detta appunto indennità integrativa speciale. Cosa diversa è l’aspetto risarcitorio che trova, invece, il proprio presupposto nell’accertamento di una responsabilità colposa o dolosa della amministrazione di tipo giudiziario.
In relazione alla prescrizione dell’azione risarcitoria, importante è la questione relativa al dies a quo (il punto di partenza ai fini del conteggio del risarcimento) da cui tale azione decorre. Sulla base di alcune precedenti interpretazioni giurisprudenziali, prendeva piede il principio in base al quale la prescrizione dell’azione risarcitoria decorre dal momento in cui l’emotrasfuso comprende e ricollega, secondo l’ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche dell’epoca, che la sua
patologia è stata contratta a seguito di trasfusione.
Se così fosse, nel caso in cui il malato non conoscesse la causa del contagio subito, la prescrizione non potrebbe iniziare a decorrere, poiché la malattia, non imputabile ad un terzo, non sarebbe idonea a concretizzare il cd. fatto che l’art. 2947 c.c. (onere della prova) individua quale cardine della prescrizione.
Per fortuna, sul punto, le Sezioni Unite, con sentenza n. 577 dell’11 gennaio 2008, hanno chiarito che non può ritenersi che la prescrizione inizi a decorrere solo con la comunicazione del responso della Commissione medica ospedaliera di cui all’art. 4 della legge n. 210/1992; ciò in quanto, dal momento che l’indennizzo, di cui alla citata legge, è dovuto in presenza di danni irreversibili
da vaccinazioni, emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, è ragionevole ritenere che già al momento della proposizione della domanda amministrativa la vittima del contagio abbia acquisito sufficiente percezione della malattia, delle cause e delle conseguenze dannose.
Sulla stessa scia della pronuncia di cui sopra, anche la Corte di Appello di Lecce, con sentenza n. 14 del 2016, ha statuito che […] Il computo della prescrizione del diritto a richiedere il risarcimento dei danni non può iniziare a decorrere solo con la comunicazione del responso delle commissioni mediche ospedaliere. E infatti, è illogico ritenere che il decorso del termine di prescrizione possa iniziare dopo che la parte si è comunque attivata per chiedere un indennizzo per lo stesso fatto lesivo pur nella diversità tra diritto all'indennizzo e diritto al pieno risarcimento del fatto dannoso.
È, pertanto, ragionevole presumere che, dal momento della proposizione della domanda amministrativa, la vittima del contagio deve avere avuto una sufficiente percezione sia della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili conseguenze dannose [….].
Per avvalorare tale tesi, è importante indicare anche un’altra pronuncia recente della Suprema Corte (cfr. Cassazione civile sez. III, 28/06/2019, n.17421), in base alla quale In tema di risarcimento del danno alla salute causato da emotrasfusione con sangue infetto, ed ai fini dell'individuazione dell'exordium praescriptionis, una volta dimostrata dalla vittima la data di presentazione della domanda amministrativa di erogazione dell'indennizzo previsto dalla l. n. 210 del 1992, spetta alla
controparte dimostrare, anche per mezzo di presunzioni semplici, che già prima di quella data il danneggiato conosceva o poteva conoscere, con l'ordinaria diligenza, sia l'esistenza della malattia, sia la sua riconducibilità causale alla trasfusione.
In relazione, infine, al termine di prescrizione dell’azione risarcitoria (e non al dies a quo di cui sopra), sulla scia di una recentissima sentenza della Suprema Corte, la n. 162 del 18 giugno 2019, dopo aver ribadito la natura extracontrattuale della responsabilità in capo al Ministero della Salute per i danni conseguenti ad infezioni (da virus HBV, HIV e HVC), afferma che il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto tali patologie per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al termine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, comma 1, c.c., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita, o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche (da ritenersi coincidente non con la comunicazione del responso della Commissione medica ospedaliera di cui all'39;art. 4 della l. n. 210 del 1992, ma con la proposizione della relativa domanda amministrativa, che attesta l'esistenza, in capo all'interessato, di una sufficiente ed adeguata percezione della malattia).
Avv. Giorgia Ballestrazzi
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