Commento alla sentenza del consiglio di stato n. 2764/2020
Con la pronuncia n. 2764 del 30 aprile 2020 la VI Sezione del Consiglio di Stato è intervenuta a mettere la parola fine su un’annosa vicenda che ha avuto ad oggetto la corretta applicazione dei principi dettati dal Codice Deontologico Forense.
Quest’ultimo si propone di dettare una disciplina organica delle norme comportamentali che ogni avvocato è tenuto ad osservare tanto in linea generale quanto, in particolare, nei rapporti con il cliente, con la controparte, con i colleghi nonché con i magistrati e con gli altri professionisti.
In specie, la pronuncia del Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa ha riguardato la tematica dell’ammissibilità da parte degli avvocati del ricorso a strumenti pubblicitari volti a far conoscere la propria attività e i propri servizi, anche su piattaforme internet.
Per meglio comprendere la portata dell’intervento giurisprudenziale in commento è d’uopo effettuare un breve excursus storico delle vicende che hanno portato all’attuale formulazione delle disposizioni di riferimento nel Codice Deontologico Forense (c.d.f.).
Nella primissima versione dello stesso la norma che disciplinava il profilo era individuata nell’articolo 17, il quale dopo aver precisato che “E’ consentito all’avvocato dare informazioni sulla propria attività professionale, secondo correttezza e verità, nel rispetto della dignità e del decoro della professione e degli obblighi di segretezza e di riservatezza” proseguiva asserendo che quanto ai mezzi di informazione dovevano ritenersi consentiti “i siti web e le reti telematiche (Internet), purché propri dell’avvocato o di studi legali associati o di società di avvocati, nei limiti dell’informazione, e previa segnalazione al Consiglio dell’ordine.
Con riferimento ai siti già esistenti l’avvocato è tenuto a procedere alla segnalazione al Consiglio dell’ordine di appartenenza entro 120 giorni.”
Al contrario, si riteneva che dovesse considerarsi vietata “l’utilizzazione di Internet per l’offerta di servizi e consulenze gratuite, in proprio o su siti di terzo.”
Dal dettato normativo, pertanto, si desumeva la possibilità di procedere alla pubblicazione su siti internet di informazioni circa lo svolgimento della propria attività professionale ad esclusione di quelle che, avendo il carattere di offerte di servizi e consulenze gratuite in proprio o su siti di terzi, venivano considerate alla stregua di tentativi di accaparramento di clienti in netta violazione del divieto imposto dall’art. 19 c.d.f.
Una rivisitazione organica della materia ha condotto nel 2014 all’approvazione e alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (cfr. Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 241 del 16 ottobre 2014) di una seconda versione del Codice Deontologico Forense. In quel testo il dovere di fornire una corretta informazione pubblicitaria veniva trasfuso nel nuovo articolo 35, il quale, rubricato “Dovere di corretta informazione”, imponeva all’avvocato che si accingesse a fornire informazioni sulla propria attività professionale l’obbligo del rispetto dei criteri di “verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza”, il tutto, peraltro, avendo il dovuto riguardo alla natura tipica e alle limitazioni poste dall’obbligazione professionale.
Dopo aver fornito una serie di indirizzi circa le indicazioni che al professionista era o meno consentito inserire nelle proprie comunicazioni informative, i commi 9 e 10 prescrivevano rispettivamente che “L’avvocato può utilizzare, a fini informativi, esclusivamente i siti web con domini propri senza reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipi, previa comunicazione al Consiglio dell’ordine di appartenenza della forma e del contenuto del sito stesso” e che “L’avvocato è responsabile del contenuto e della sicurezza del proprio sito, che non può contenere riferimenti commerciali o pubblicitari sia mediante l’indicazione diretta che mediante strumenti di collegamento interni o esterni al sito”.
Senonché proprio nel 2014 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (in seguito AGCM) sanzionava il Consiglio Nazionale Forense (CNF) in quanto esso aveva:
- pubblicato sul proprio sito internet la circolare n. 22-C/2006 con la quale, nonostante fosse intervenuta ad opera di intervento legislativo la liberalizzazione in materia, continuava a stigmatizzare in termini di illecito disciplinare la richiesta, da parte degli avvocati, di compensi che fossero inferiori alla misura dei minimi tariffari;
- reso il parere n. 48/2012 con il quale dichiarava deontologicamente illecito il ricorso da parte degli avvocati alla piattaforma internet denominata “Amica Card”, la quale si prefiggeva di consentire agli iscritti le proprie prestazioni professionali a prezzi scontati agli utenti del sito, tanto in violazione del divieto di accaparramento di clientela sancito dall’allora art. 19 del codice deontologico forense.
La relativa sanzione risultava, peraltro, di importo assai consistente, considerato che la stessa ammontava ad un importo di ben 912.536,40 euro dal momento che si riconosceva che con le attività sopra descritte il CNF aveva aperto la strada a un’intesa restrittiva della concorrenza.
Sul merito della vicenda veniva chiamato a pronunciarsi il TAR Lazio, il quale, accogliendo solo in parte le doglianze poste a base del ricorso del CNF, disponeva l’annullamento della delibera dell’AGCM solo per quanto atteneva al profilo relativo alla pubblicazione sul proprio sito alla circolare n. 22-C/2006, riconoscendo – al contrario – la natura prettamente anticoncorrenziale del parere n. 48/2012 in quanto, definendo deontologicamente scorretto il ricorso da parte degli avvocati di piattaforme digitali commerciali a fini pubblicitari (cfr. TAR Lazio, sentenza n. 8778/2015).
Avverso tale arresto giurisprudenziale proponevano ricorso al Consiglio di Stato tanto il CNF quanto l’AGCM. Il Consiglio di Stato in esito al giudizio istaurato ripristinava la multa comminata dall’AGCM al CNF in ragione del riconosciuto avvio di un’intesa anticoncorrenziale da parte di quest’ultimo.
Il Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa asseriva, tra l’altro, che il ricorso a piattaforme web di tipologia corrispondente a quella denominata “Amica Card” altro non fosse che una semplice nuova modalità di farsi pubblicità che, per quanto non rispondente ai canonici modelli, si configurava come un’attività, comunque, del tutto lecita in quanto esplicazione del generale principio della libera concorrenza (cfr. Consiglio di Stato sentenza n. 1164/2016). Nel 2016 il Consiglio Nazionale Forense pubblicava il nuovo Codice Deontologico Forense, il quale riportava all’art. 35 modifiche di notevole portata.
Nel dettaglio, al primo comma, il testé evocato art. 35, nella versione post modifica e tutt’oggi in vigore, prevede che “L’avvocato che dà informazioni sulla propria attività professionale, quali che siano i mezzi utilizzati per rendere le stesse, deve rispettare i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale”.
D’altro canto, si è assistito all’elisione dal testo dei commi 9 e 10, i quali, come già si è avuto modo di evocare prescrivevano che “L’avvocato può utilizzare, a fini informativi, esclusivamente i siti web con domini propri senza reindirizzamento, direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale partecipi, previa comunicazione al Consiglio dell’Ordine di appartenenza della forma e del contenuto del sito stesso” nonché che “L’avvocato è responsabile del contenuto e della sicurezza del proprio sito, che non può contenere riferimenti commerciali e pubblicitari sia mediante l’indicazione diretta che mediante strumenti di collegamento interni o esterni”.
La conseguenza di tali interventi modificativi è che attualmente all’avvocato è consentito il ricorso a qualsiasi mezzo pubblicitario (ivi compresi i siti web, provvisti o meno di reindirizzamento automatico) purché rispettoso dei doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, avendo sempre riguardo alla natura e ai limiti propri dell’obbligazione professionale.
Può, pertanto, ritenersi che con l’adozione di tale testo il Consiglio Nazionale Forense abbia inteso adeguarsi alle osservazioni ed indicazioni fornite dall’AGCM, eliminando in radice il divieto per gli avvocati di farsi pubblicità sul web, senza che sia necessario fare ricorso ai propri domini.
In conclusione, perciò, non appaiono ad oggi più giustificate le limitazioni alla possibilità di offrire le proprie prestazioni professionali tramite internet e originariamente contenute nel parere n. 48/2012 del Consiglio Nazionale Forense, essendo, di contro, pienamente consentito il ricorso al più ampio accesso dei servizi e delle piattaforme web, ivi comprese quelle che si propongono di fungere da mero sito di incontro tra legali e potenziali clienti, con il limite unico di non sfociare in comportamenti contrastanti con il divieto di accaparramento della clientela.
Né la pronuncia citata all’inizio di questa trattazione può condurre a concludere in senso contrario, posto che con essa il Consiglio di Stato (cfr. sentenza n. 2764/2020), a conferma di quanto statuito dalla pronuncia del TAR Lazio, annullava l’ingente sanzione comminata al CNF dall’AGCM e tanto in ragione, innanzitutto, di vizi tanto sostanziali quanto formali oltre che in ragione del fatto che al momento della pronuncia rilevava che il CNF con le modifiche da ultimo apportate al codice deontologico forense si era già conformata, ottemperandolo, al contenuto del provvedimento dell’AGCM. Fonti: Artt. 17 e 19 Codice Deontologico Forense versione ante 2014 Art. 35 Codice Deontologico Forense 2014 Art. 35 Codice Deontologico Forense 2014 Circolare n. 22-C/2006 del Consiglio Nazionale Forense Parere n. 48/2012 del Consiglio Nazionale Forense TAR Lazio, sentenza n. 8778/2015 Consiglio di Stato, sentenza n. 1164/2016 Consiglio di Stato, sentenza n. 2764/2020